“Oltre la paura di non farcela”: un viaggio nel cambiamento e nella scrittura creativa
Benvenut* in questo racconto. Sono felice che tu sia qui, perché voglio condividere con te anche una parte personale che mi rappresenta molto, ma che non ho mai condiviso online. Offline sì, spesso, ma online mai. Credo sia arrivato il momento. Devi sapere che con me, da sempre, porto un taccuino dove annoto frasi, emozioni, e i tratti delle persone che mi colpiscono maggiormente. I miei taccuini sono davvero moltissimo (almeno un centinaio o forse più non li ho mai contati) e ogni tanto mi piace riprenderli per rileggere e “riprovare” quelle emozioni. Da qui, spesso mi viene voglia di riscrivere e come si sa, la memoria “ci trasporta altrove”.
Nelle aule accadono trasformazioni incredibili, emozioni miste a conoscenze e l’inizio della sperimentazione di competenze
Prima di passare a questo racconto voglio sbloccarti un ricordo e condividere un aspetto della formazione che per me è fondamentale. Ammiro profondamente Maria Montessori e il suo metodo e così ne ho introiettato parti, adattandole al mio metodo di insegnamento, ai miei pensieri e alla modalità di interagire con i miei studenti. Ma tutto parte da lì. Per questo per me l’aula è un luogo magico, e il mio patto con gli studenti inizia proprio dal ricordare che l’aula deve essere un luogo sicuro, di rispetto e di valorizzazione reciproca. Ogni prima lezione inizia proprio da lì, dall’imparare il rispetto degli spazi. Ora ti lascio con questo racconto, che non può non far parte di quel #consapevolmenteconnessi che amo portare avanti in ogni attività. Buona lettura e se ti va, mandami un feedback, mi farebbe molto piacere.
disclaimer: la bellezza della scrittura creativa è la creatività 😉
“Oltre la paura di non farcela”
Ricordo di un corso tenuto più di 13 anni fa dedicato al reskilling delle competenze. Mi chiedevo un numero importante di ore per un progetto europeo per persone in quel momento inoccupate, perché avevano perso il lavoro e che dovevano ricollocarsi nel mercato e imparare a conoscere il digitale con le sue opportunità. Il mercato con la richiesta di skill digitali, avrebbe potuto offrire loro una seconda chance. E noi docenti eravamo lì per supportarli.
Fu per me la seconda volta che provai questo tipo di formazione, avevo 37 anni, avevo divorziato da poco ed era anche per me un nuovo inizio. La prima volta che mi cimentai nel reskill ne avevo 23 ed era sicuramente un approccio differente. Quando mi proposero di fare formazione sul digitale e parlare di cambiamento, di affrontare il tema dell’innovazione come nuovo approccio e opportunità di “nuovo” decisi di accettare. Era sfidante sia professionalmente che emotivamente, in quel periodo. Stavo vivendo anch’io un nuovo inizio. Esattamente come loro dovevo ricominciare una nuova vita.
Pensai che mi avrebbe fatto bene, che quell’orario era perfetto perché finiva esattamente mezz’ora prima della fine dell’orario scolastico di mia figlia e che avrei potuto essere da lei puntuale. Era funzionale, da ogni angolazione.
Il giorno in cui andai nella sede a firmare il contratto mi fecero fare un giro della struttura, mi spiegarono l’uso del badge, mi mostrarono la macchinetta del caffè, mi diedero la chiavetta per usufruire dello sconto. Sì, era un nuovo inizio. E’ quello che pensai. Mi farà bene. Mi guardavo attorno ammirata dal design, dal nuovo, dall’open space e dalla scrivania centrale e tonda della reception, con una giovane sorridente con un rossetto rosso che le illuminava ancora di più il viso oltre al suo bellissimo sorriso. Salii le scale per raggiungere l’ufficio delle risorse umane, appoggiai la giacca e la borsa e iniziai a leggere il contratto. Tutto a posto, pensai. Firmai.
Era più facile concentrarmi sull’analisi di un contratto rispetto che pensare a cosa avrei fatto nelle ore successive. Entrare in casa e vederla vuota. La mia mente mi proponeva random pensieri, ricordi, flashback della vita, influenzando le mie emozioni, che in maniera del tutto inaspettata mi travolgevano. Mi aggrappavo a quelle righe sul foglio con interlinea doppia. Troppo spazio pensavo.
Mi dissero di passare poi nell’ufficio accanto per tutte le indicazioni relative all’aula, ai corsisti, alle modalità di interazione, alle pause e agli orari fissi. A come compilare i registri delle presenze e a come strutturare i test di valutazione per ogni passaggio di modulo.
Fin qui nulla di diverso da quello che avevo sempre fatto. Precisione, organizzazione e documenti sempre in ordine. Ma questo non è mai stato un problema per me: cartellini con etichette, fogli sempre in bustine trasparenti e note per ciascun discente, per ricordarmi aree di miglioramento, hard skills e soft skills in modo tale da costruire il miglior percorso per la classe. Quando prendi un indirizzo filologico, ti rimane nel DNA. La parola e la classificazione precisa e puntuale ti accompagneranno sempre. Così come il dover sistemare un libro fuori posto perché non in ordine alfabetico o fuori contesto per la tematica. E sì, anche il fastidio per l’interlinea doppia.
“Ecco qui, ti ho stampato tutte le schede di ciascun corsista, hai le foto, il CV e le note relative al colloquio effettuato per la selezione. Io c’ero, mi hanno fatto assistere a ciascuno degli incontri sia con le persone selezionate che quelle non idonee a questo progetto. Chiedimi se vuoi sapere qualcosa in più”. Le sorrisi e la ringraziai. Poi presi la cartellina azzurra chiusa e iniziai ad aprirla lentamente, come per godermi questo nuovo inizio. Come per eliminare ogni altro pensiero. Sarà sfidante, pensai. Ma mai avrei immaginato fino a quel punto. Aprii la cartellina dalla grammatura piuttosto consistente e davanti agli occhi mi comparve la foto di un signore dallo sguardo triste. E la sua presentazione.
Fu una sensazione di disorientamento potente. Un vero e proprio pugno nello stomaco. L’inaspettato che ti compare a ricordarti che non tutti i corsi sono uguali, e che di fronte questa volta hai persone che stanno vivendo una situazione di difficoltà. Che non si tratta del solito corso tanto desiderato; ma di qualcosa di transitorio. Inizio a leggere la sua presentazione. Ho cinquant’anni e mi trovo a ricominciare da capo. Provai di nuovo una strana sensazione nello stomaco. Intanto Laura mi diceva “Fai con calma, leggi tutto e poi ne discutiamo insieme, così da creare il percorso migliore”. Non era la fretta che mi agitava in quel momento, ma lo sguardo penetrante e triste di quel signore. Uno sguardo rassegnato di chi ha perso tutto ciò che lo rendeva orgoglioso.
Mentre scorrevo le schede, i volti dei corsisti prendevano vita davanti ai miei occhi. In un attimo tutti i corsi di comunicazione non verbale si stavano palesando in ogni dettaglio su cui mi cadeva lo sguardo. Ogni immagine mi diceva tanto, forse più di quanto mi aspettassi. Ogni CV raccontava una storia diversa: chi aveva perso il lavoro dopo trent’anni nella stessa azienda, chi cercava una seconda chance dopo il fallimento della propria attività, chi semplicemente non sapeva più dove sbattere la testa dopo decine di contratti a termine. Una classe unita dal desiderio di ricominciare ma accomunata dalla sensazione di sconfitta. Mi resi conto di quanto fossi privilegiata ad avere il mio lavoro; e non un lavoro qualsiasi, ma quello dei miei sogni fin da bambina.
Il signore di 50 anni, con quello sguardo carico di desolazione, mi colpì particolarmente. Ripresi la foto e Iniziai ad osservarla con maggiore attenzione. I suoi occhi mi ipnotizzarono, c’era tristezza, paura per il futuro, desolazione. Non aveva neppure tentato di minimizzare quella sensazione, come se ormai facesse parte di lui. Forse mi rispecchiavo in quelle sensazioni. Quel senso di fallimento mi ricordava il mio matrimonio: una vita insieme che finisce. Tutte le abitudini, le certezze, un giorno preciso, in un’ora precisa svaniscono. Davanti hai una nuova strada, un nuovo viaggio e una nuova meta tutta da definire. Devi costruire la tua bussola.
Decisi di leggere la sua presentazione. ’Ho cinquant’anni e mi trovo a ricominciare da capo, ma non penso ci riuscirò’, aveva scritto. Quelle parole mi fecero tornare indietro nel tempo, al mio divorzio, al momento della firma in cui ebbi, per un attimo quel pensiero, alla sensazione di aver fallito, alla paura di non farcela. Ma sapevo che proprio lì, in quell’aula, c’era un’opportunità per tutti noi. Un’opportunità per ricominciare, per riscoprire il nostro perché. Una forza che avremmo potuto trovare tutti insieme, ma ciascuno dentro di sé.
L’entusiasmo di Laura strideva con quella foto tessera e con quelle parole. Guardavo lei, con il suo entusiasmo da tutor e gli occhi rivolti al futuro e l’immagine di quegli occhi carichi di desolazione. I suoi occhi pieni di sogni mi strappavano sempre un sorriso. Mi specchiavo in lei, in quell’entusiasmo, in quella voglia di farcela, di trovare la strada giusta. Ero esattamente come lei. Dovevo solo ritrovarmi.
Le chiesi quanti anni avesse. Mi rispose 24 anni, “mi sono appena laureata e sono qui per cominciare come tutor. Faccio pratica e poi chissà, magari passo alle risorse umane”. Mi ricordava me tredici anni prima. Stesso entusiasmo, stesso sorriso, stessa voglia di fare e di conquistare i miei sogni. Le dissi “sarà una bella esperienza, sono sicura che faremo un ottimo lavoro di squadra!”. Ero certa che sarebbe stata la migliore assistente per questo viaggio così sfidante, e che il suo sorriso mi avrebbe sicuramente supportata nei momenti più complessi. E che senza saperlo, mi avrebbe restituito una parte di me che in quel momento avevo smarrito. E’ questione di tempo, di riflessione, di energia e poi la vita ricomincia, le delusioni perdono il loro potere dirompente iniziale e un passo alla volta si ricomincia il viaggio. E sì, con maggiore consapevolezza. L’importante è imparare dal vissuto. Perché anche i momenti peggiori vanno vissuti appieno. Un concetto complesso da comprendere e da sperimentare. Si tende a soffocare le emozioni negative, mentre invece viverle ci fa comprendere meglio chi siamo. Nel dolore entriamo in contatto con una parte di noi che non conosciamo, che ci spaventa, perché ci riporta alla nostra infanzia. Nel dolore si cresce. E diventare grandi, fa sempre un po’ paura. Prendersi le proprie responsabilità significa riconoscerci attori della nostra vita.
Lessi tutte le schede, analizzai i profili, presi nota di quelle che erano le competenze, e iniziai a interconnettere tutte le informazioni con il programma formativo completo.
“Laura, ci sono. Possiamo cominciare a capire come strutturare il percorso del mio corso e renderlo coerente con i programmi dei colleghi, così da poter offrire ai discenti qualcosa di ben articolato. Tu sarai il filo rosso che collegherà l’intera narrazione”. Si illuminò, prese un notes e una penna e iniziò a scrivere data, ora, luogo e titolo del progetto piena di entusiasmo.
Passammo le successive tre ore a progettare contenuti, inserire parti laboratoriali, simulare i gruppi di discussione, immaginare le criticità da gestire. In quel momento capii di avere accanto a me una persona empatica e una grande ascoltatrice. Mi diede una serie di impressioni che si rivelarono precise e puntuali e che mi permisero di affrontare al meglio i momenti più complessi. E il suo notes si popolò di parole, colori e schemi.
Fu l’inizio di un incredibile viaggio che ricordo con grande affetto, perché fu una grande esperienza. Mesi insieme a costruire il nuovo. Ma non immaginatevi una storia con un tutti felici e contenti, con un reskill facile e pieno di entusiasmo. Pensate piuttosto a delle montagne russe con picchi di entusiasmo e tanta disperazione. Nella stessa ora si passa a dalla simulazione di una presentazione di prodotto e relativo lancio sul mercato all’amarezza di un flop. Bastava una parola per innescare il ricordo del click. Lo avevamo chiamato così il momento in cui a ciascuno di loro era stata data la notizia dell’interruzione della collaborazione. Un click e poi un blackout, esattamente come era accaduto a me, nella mia vita privata. Parole a cui segue un momento di buio totale. Perché questo è come lo viviamo: l’ingresso in un tunnel nero che ci risucchia e ci attorciglia in noi stessi. Differentemente sarebbe se immaginassimo un foglio bianco su cui scrivere un nuovo capitolo. Ma quello funziona solo nei libri motivazionali; o dopo mesi di elaborazione.
Quelle ore erano un investimento per il futuro, ore retribuite anche per i discenti, certo, ma non a livelli di stipendio. Ore in cui la paura di “perdere tempo” e di non riuscire a pagare le bollette si alternavano alla soddisfazione di avere appreso nuove conoscenze da poter inserire in un profilo e renderlo così più appetibile per il mercato.
Frasi come “e se avesse ragione mio marito quando mi dice vai a chiedere alla cooperativa se hanno bisogno di una donna per le pulizie in più”, “ e se nessuno mi prenderà più cosa farò, sono il capo famiglia, ho sempre fatto questo e oggi mi sento inutile e non saprei da dov e cominciare”, “ho fatto il magazziniere per sei anni, e se non avessi altre chance?”, erano all’ordine del giorno e comprensibili; anzi, più che legittime.
Se dovessi raccontare del cambiamento, beh, quello fu proprio il mio, un cambiamento di prospettiva verso qualsiasi mia certezza. Dalla gestione dell’aula, ai contenuti formativi, dalla costruzione di nuove competenze all’ascolto profondo. Dalle strategie alle nuove strategie per riuscire a mantenere quel patto formativo iniziale nel quale credevo fermamente. Dal sentirmi persa al diventare il capitano di una nave che imbarcava acqua da ogni parte, ma che doveva raggiungere il porto ad ogni costo.
Ogni aula ha una storia a sé, ma ci sono aule che ti portano fuori dall’area di confort e che ti insegnano che il cambiamento non è mai facile, ma ne vale sempre la pena. E che quando ti sembra di non farcela c’è sempre qualcuno che ti tende la mano e che, forse tu non lo sai, ma sta vivendo una situazione più complessa della tua. Non siamo mai soli, a volte siamo ciechi.
Si pensa che fare formazione sulle stesse tematiche sia una replica costante di un format. Che le slide create vadano bene per ciascun corso. Che tutto sia ripetitivo. Ma non è così quando vuoi generare un cambiamento profondo. Non è così quando il patto con i discenti è chiaro e tu lo vuoi mantenere nonostante tutto. Nonostante le reticenze, le paure, la bassa autostima, le crisi, le vicissitudini. Si entra in aula e si inizia un viaggio, ogni volta con viaggiatori differenti, con vissuti differenti, con idee e visioni, ancora una volta differenti. E non sai mai dove ti porterà.
E in un giorno soleggiato di ottobre iniziò il mio viaggio insieme a questa classe. Dodici persone deluse, provate e sfiduciate.
Come sempre entrai in aula dieci minuti prima dell’orario di inizio. Fuori il rumore dei lavori nella strada era quasi assordante. L’aula era spaziosa e luminosa, il sole quasi accecante. Tanto da farci chiudere le tende dopo un’ora dall’inizio. Non si riusciva a tenere gli occhi aperti, i banchi riflettevano e facevano lacrimare gli occhi. All’interno trovai già tre studenti: un signore con la sua valigetta di pelle marrone appoggiata sul banco in prima fila, intento a tirare fuori un quaderno e una penna, insieme ad un catalogo; un giovane di poco meno di trent’anni arrivato senza niente e buttato sulla sedia con l’aria di chi dovrà soffrire per le successive sei ore. E seduta in ultima fila, anche se davanti era ancora tutto vuoto, una ragazza molto timida, già seduta al suo posto nella fila centrale nell’ultimo posto a destra con lo sguardo rivolto verso il basso.
Come sempre augurai buongiorno ai presenti seguito da “piacere di conoscervi” e iniziai a tirare fuori i materiali che avevo portato con me. Quella mattina avevo accompagnato a scuola mia figlia e poi mi ero diretta al corso. Avevo parcheggiato l’auto poco distante e dopo essermi fermata alla macchinetta del caffè proprio accanto all’aula ero entrata con l’idea che sarebbe stato il mio “posto sicuro, lontano dai pensieri tristi”. Nulla di più distante dalle aspettative.
Trovai un signore di cinquant’anni depresso, vinto dalla vita e dalle vicissitudini, senza più nessuna fiducia nel futuro. Quello sguardo che mi aveva colpito nella foto tessera era ancora più triste dal vivo. Mi raccontò che l’azienda per cui aveva lavorato per circa trent’anni aveva dichiarato fallimento e lui si era ritrovato nel mercato del lavoro senza nessuna chance. O così gli ripetevano in continuazione ad ogni colloquio. Ne aveva già fatti una decina, e ogni volta la ferita diventava sempre più profonda. Mi mostrò il catalogo, e mi fece vedere tutto quello che aveva disegnato lui. Fu l’unico momento della giornata in cui il suo sguardo si illuminò per qualche minuto. Mostrava con orgoglio quei prodotti, come si mostrano le foto di un album dei ricordi. Avrei voluto confortarlo, ma sapevo che il mio compito non era lasciarlo nel passato, ma accompagnarlo verso un futuro in cui fargli trovare delle nuove opportunità. Il mio ruolo era quello di aiutarlo a comprendere il suo capitale di conoscenza e renderlo informazioni utili per presentarsi al meglio. Era aiutarlo a sfruttare e conoscere il digitale per applicarlo nel suo contesto e costruire il suo futuro carico di valore. Dovevo allontanarlo dalle paure e avvicinarlo alle speranze. Facendo quello, probabilmente stavo aiutando anche me stessa.
Il cambiamento inizia quando decidiamo di guardare oltre le nostre paure; quando decidiamo di non voltarci, ma di viverle, comprenderle e renderle così meno intense. In quel momento mi sentii sovrastata dalla responsabilità. Sei mesi la durata del corso. Sei mesi per ricostruire la fiducia in loro stessi attraverso attività laboratoriali, teoria, simulazioni di colloqui, presentazioni.
Questo non è il viaggio dell’eroe che entra in aula e resiliente e sempre focalizzato alla meta porta tutti in salvo. Questa è una storia vera vissuta in ogni momento di disperazione, di rabbia, di sconforto quando i colloqui non andavano bene. Quando all’entusiasmo e all’energia positiva seguiva la frase “ci dispiace, ma la nostra scelta è ricaduta su un altro candidato”. Quando davanti al “sono un fallito”, “ho fatto scena muta, non sono riuscita a parlare”, “cerchiamo qualcuno con meno esperienza” devi ricominciare il lavoro di costruzione, perché tutto quello che hai fatto è crollato per l’ennesima volta.
Ci sono stati momenti in cui avrei voluto piangere con loro, urlare per la rabbia, battere i pugni sul tavolo. Altri momenti in cui abbiamo messo in campo una creatività incredibile. Momenti in cui abbiamo lavorato sulla presentazione di ciascuno e altri in cui ci siamo messi nei panni dell’altro per provare a trovare un’angolazione nuova per comprendere come il digitale avrebbe potuto migliorare le competenze.
Il giorno in cui tutto sembrò crollare, fu anche il giorno in cui iniziammo a ricostruire. Stavamo simulando un colloquio quando Enrico si prese la testa fra le mani e guardando verso il basso urlò “basta! Non ce la faccio, rinuncio. Non valgo più niente, sono troppo vecchio!”. Ricordo ancora quella scena. Calò il silenzio. Nessuno alzava lo sguardo. Solo io e Laura ci guardammo. Fu una doccia fredda. Ma cercai di mantenere la calma e mi andai a sedere vicino a lui. “Non sei vecchio, anzi hai una grande esperienza e un talento e un entusiasmo per ciò che conosci che è invidiabile”, lo guardai dritto negli occhi e per la prima volta vidi una luce “ti ricordi quando alla prima lezione mi hai mostrato il catalogo? Beh, ho pensato che il tuo entusiasmo era contagioso”. “Davvero?” Mi chiese con un accenno di sorriso. “Davvero. Devi crederci. Dentro di te c’è talento e un’esperienza importante, devi solo riuscire a raccontarla nel modo giusto alle persone giuste. E forse quelle che hai incontrato non lo erano”.
Enrico, quello con lo sguardo vinto, si alzò in piedi e disse: ‘Non so se ce la farò, ma oggi ho capito che non voglio arrendermi’. Le sue parole risuonarono nell’aula come un’eco, toccando ognuno di noi. E il suo sguardo, finalmente, aveva perso la tristezza per fare spazio alla determinazione. Anche io, in quel momento, mi resi conto che non stavo solo insegnando: stavo imparando. Imparavo che il coraggio non è l’assenza di paura, ma la decisione di andare avanti nonostante tutto.
Laura, con il suo sorriso solare, mi passò un biglietto: ‘Stai facendo la differenza’. Lo lessi e sorrisi. Forse era vero. Forse, in quel viaggio insieme, stavamo tutti trovando qualcosa che credevamo perduto: la speranza. E tutti stavamo facendo la differenza gli uni per gli altri.
Nei sei mesi successivi tutti i partecipanti di quel corso riuscirono a ricollocarsi dopo il periodo di stage all’interno di aziende. Vennero confermati quasi tutti, tranne uno che passò comunque ad un’altra azienda. Laura oggi è a capo delle risorse umane e quando ha corsi a cui tiene particolarmente mi chiama con il suo tono entusiasta. E come sempre, felicemente, non so dirle di no.
Amo le persone, amo le relazioni di fiducia che si costruiscono con consapevolezza, responsabilità e rispetto nelle aule. Amo quel fluire di idee, creatività e connessione che ciascun* di noi è in grado di generare per sé e per l’altr*.